FORUM: Le unioni civili e la discriminazione dei veri deboli

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Le unioni civili e la discriminazione dei veri deboli

di Vittorio POSSENTI, Emerito di Filosofia politica, Università Ca’ Foscari di Venezia

Con la sentenza n. 138 del 2010 la Corte costituzionale ha riconosciuto la rilevanza costituzionale delle unioni omosessuali, poiché siamo di fronte ad una delle formazioni sociali di cui parla l’articolo 2 della Carta. La conclusione della Corte è che alle persone dello stesso sesso, unite da una convivenza stabile, “spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”. La sentenza fa riferimento, e altro non avrebbe potuto fare, all’art. 2 e non all’art. 29 che riconosce la famiglia naturale fondata sul matrimonio. Dovrebbe dunque essere chiaro che le unioni civili omosessuali non sono in alcun modo una forma di matrimonio o di “simil-matrimonio” con tutte le necessarie conseguenze in ordine alla categoria del figlio.
Il ddl Cirinnà che passa ora in aula dopo aver saltato alcuni passaggi in commissione, disciplina le unioni civili per le coppie omosessuali e la convivenza in genere. In sostanza crea un nuovo istituto per coppie dello stesso sesso, «avvicina» le unioni gay al matrimonio introducendole direttamente nel codice civile. Esso estende alle unioni civili la cosiddetta stepchild adoption, ossia l’adozione del bambino che vive in una coppia dello stesso sesso, ma che è figlio biologico di uno solo dei due.
Di fronte ad un dibattito che viepiù si riscalda, diventa imperativo confrontarsi con la realtà dei problemi, mettendo da parte posizioni ideologiche come il ritornello su una classe dirigente politica che fatica a accettare i cambiamenti in atto della società: refrain che presume che la società sia d’accordo con le opinioni di qualche intellettuale.
E’ giusto regolare i rapporti economici, patrimoniali e simili delle unioni omosex, mentre è inaccettabile intendere l’unione civile come ‘simil-matrimonio’, comprendente l’adozione del figlio biologico del partner e l’affido rafforzato. Coloro che sostengono l’adozione e l’affido fanno riferimento al prevalente interesse del bambino o del minore: un discorso che merita una messa a punto rigorosa per il modo del tutto strumentale con cui viene impiegato. Il 6 gennaio un importante quotidiano italiano ha intervistato sulle unioni civili due parlamentari del Pd: un’opinione emersa è che l’affido rafforzato invece che l’adozione sarebbe discriminatorio per il minore. Una posizione fortemente irriflessa in quanto tace sulla legittimità dell’adozione, la quale, questa sì, impone un’inaccettabile discriminazione al minore che si trova ad avere due ‘padri’ o due ‘madri’ in rapporto alla stragrande maggioranza dei bambini che hanno un padre e una madre. Il superiore interesse del minore è questo. C’è di che essere fortemente preoccupati dinanzi ad un modo tanto estrinseco e infondato di ricorrere al criterio di non discriminazione. Negli ultimi anni, anche a motivo di sentenze particolarmente problematiche della nostra Corte, il criterio di non discriminazione è stato usato contro il debole, l’inapparente, il non-nato, e costantemente a favore dell’adulto. Si pensi all’infausta sentenza sulla fecondazione artificiale eterologa, in cui il diritto del figlio di conoscere le proprie origini è stato calpestato, e parimenti cancellata ogni responsabilità del fornitore del gamete esterno alla coppia, mettendo in tal modo a tacere il fondamentale principio di rispondere delle conseguenze delle proprie azioni.
Occorre pertanto tenere gli occhi aperti dinanzi al gioco che viene praticato da molti anni, con una protervia sorprendente: intendo il richiamo ossessivo al criterio di non discriminazione che cela un inganno. E’ infatti atto di giustizia trattare diversamente cose diverse, e niente può fare apparire uguali il matrimonio e l’unione civile omosex, né il figlio di una coppia etero con il minore che proviene da un’eterogeneità di origini. Non esiste alcun diritto al figlio, e tanto meno per coppie omosex.
Nelle interviste suddette si minimizza il rischio dell’utero in affitto quale conseguenza dell’adozione stepchild e dell’affido, osservando che il richiamo al rischio è fatto per incutere paura. Sembra proprio che non si voglia vedere ciò che invece parlamentari e partiti dovrebbero vedere per non ingannare se stessi e l’opinione pubblica. Consideriamo il caso dell’adozione stepchild: due partners omosex uomini prenotano un bambino tramite l’utero in affitto. Uno dei due fornisce il gamete maschile, una donna esterna l’ovocita, un’altra donna l’utero. Alla fine il padre genetico chiede il riconoscimento della paternità e poi dopo qualche tempo la coppia chiede l’adozione, e il gioco è fatto. Alcuni guardano verso affido rafforzato, ma è solo uno specchietto per allodole perché il minore ricevuto in affido è pur sempre ottenuto con l’utero in affitto.
Questa pratica disconosce diritti fondamentali della madre reale e del figlio e implica forme inaccettabili di sfruttamento: la donna che si sottopone alla maternità per conto terzi è usata come mero strumento di produzione e non come persona, il figlio è inteso come un prodotto acquistato e non saprà mai le sue vere origini, i fornitori dei gameti che potranno essere in tutto o in parte diversi da quelli dei committenti, si sottraggono colpevolmente al principio di responsabilità che impone di rispondere delle conseguenze prevedibili della propria azione, in questo caso la nascita di un figlio che essi volontariamente abbandonano dall’inizio. Per questi motivi si può parlare dell’utero in affitto come di un crimine contro la persona sia nella forma della depersonalizzazione della donna che effettua la gravidanza e partorisce, sia in quella del figlio che non conoscerà mai la madre gestante e non di rado neanche coloro che hanno fornito i gameti.
Recentemente si sono levate una serie di voci, a cui aderisco, per sanzionare la pratica dell’utero in affitto come un crimine o un reato universale, ossia illecito dovunque. Ciò anche allo scopo di evitare lo stratagemma truffaldino di ricorrere all’utero in affitto là dove è permesso, e poi di chiedere la registrazione del figlio ordinato nei Paesi in cui la pratica è vietata.
Una recente mozione del Parlamento europeo (17 dicembre) “condanna la pratica della surrogazione, che compromette la dignità umana della donna dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce; ritiene che la pratica della gestazione surrogata che prevede lo sfruttamento riproduttivo e l’uso del corpo umano per un ritorno economico o di altro genere, in particolare nel caso delle donne vulnerabili nei paesi in via di sviluppo, debba essere proibita e trattata come questione urgente negli strumenti per i diritti umani”. Negli stessi giorni il comitato etico della Fondazione Veronesi emetteva un parere a cui è stato dato, molto curiosamente, maggior rilievo che al voto del Parlamento europeo, in cui tra le varie motivazioni a favore dell’utero in affitto risultava quella del sovvenire alla scarsità delle nascite (!).

Editoriale de ‘Il Mattino’, 7/1/2016

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Una riflessione su Diritti tradizionali e valori fondanti

Andrea Perrone – Michele Rosboch

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