La politica di una volta

Con la morte di Gerardo Bianco, il 1 dicembre 2022, è scomparsa la vecchia politica, quella della DC del Novecento italiano, ma anche quella dell’Italia dai mille volti e dalle mille sfumature, che risale a tempi ancora più antichi e medievali, se non addirittura a quelli dell’antichità classica. La sua scomparsa è quella di un esponente dell’arte delle “correnti di partito”, ma anche quella della cultura aulica, da grande latinista che era, applicata alle vicende transeunti delle ideologie e delle scelte di campo, capace di sovvertire l’ordine costituito senza violenze e senza rivoluzioni, anzi con una sottile vena d’ironia.

Nato a Guardia Lombardi, La Uàrdia, uno dei tanti paesini abbarbicati sui colli dell’Irpinia, zio Gerardo per noi parenti era un punto di riferimento di umanità gentile e profonda, prima che un esponente di una classe dirigente o di potere. L’altopiano al di sopra delle spiagge e delle isole napoletane è una specie di “Svizzera campana”, da dove si guarda al sud soleggiato come una terra non molto affidabile, di gente poco laboriosa e troppo esuberante, mentre “da noi si tace e si lavora”, anche se in realtà si parla e si discute di tutto, dai problemi quotidiani fino ai destini dell’umanità. Il paese aveva funzione di sentinella fin dai tempi dei Longobardi, che le hanno dato il nome, mentre il nome dell’illustre professore e senatore discendeva invece da un altro colle adiacente, quello di Caposele, dove risiede una parte importante del parentado. Di fronte alle sorgenti del Sele, dove la leggenda racconta che si concluse tragicamente la rivolta di Spartaco contro i romani, sorge infatti il santuario di san Gerardo Maiella, il ragazzo “folle per Cristo” in grado spostare le navi con un dito e liberare dall’infertilità le donne sterili, che agli inizi del Settecento accompagnava per le valli e le montagne il grande illuminatore delle terre pugliesi e campane, sant’Alfonso Maria de’ Liguori.

Gerardo del resto è nome lombardo, nel senso della discendenza germanica dei Longobardi che da queste parti si disposero in un regno alternativo a quello settentrionale di Pavia, trovando nuove formule di compromesso con i fratelli di sangue e con i domini papali, in un regno del Sud che ebbe eredi variopinti e sorprendenti, a cominciare dallo “Stupor Mundi” svevo Federico II, il genio che dominava l’Europa e il Mediterraneo a partire dalle terre disprezzate dell’antica Kalabria, la “bella terra” del Meridione d’Italia. Il giovane santo redentorista, il cui santuario è stato quasi l’unico edificio a resistere alle scosse del terremoto degli anni Ottanta, portava a sua volta il nome leggendario di san Gerardo Sasso, il fondatore dell’Hospitale di Gerusalemme da cui è sorto l’Ordine Sovrano dei Cavalieri di Malta. Il grande “ospitaliere”, prima che l’Ordine venisse comandato con la spada dai guerrieri francesi, era giunto in Terrasanta a servire i pellegrini dalle alture della penisola amalfitana, che nell’Irpinia avellinese e beneventana ha poi generato casate di nobili uomini, che portavano ai monti la sapienza del mare.

I “politici della Magna Grecia”, come venivano definiti gli eredi dell’avellinese Fiorentino Sullo che diedero vita alla corrente democristiana “di Base”, avevano in Ciriaco De Mita il modello dell’imperatore, e in Gerardo Bianco quello del filosofo peripatetico, riassumendo la classicità da Platone ad Alessandro Magno. La loro era la “politica” in senso letterale, quello della polis, del paese che si riunisce nell’agorà per discutere di tutto, mentre donne e bambini pregano nella chiesa del castello. Era tradizione che i signori, come zio Gerardo, accompagnassero la moglie Tina alla funzione domenicale, per fermarsi sulla soglia ad attenderne la conclusione, discutendo con i propri pari all’ombra degli alberi sulle panchine, o davanti a un bicchiere di vino ai tavolini del bar della piazza. Personalmente visitavo il paese d’origine della famiglia solo d’estate, insieme a mio padre e ai miei zii di primo grado, e la loro maggiore soddisfazione era il capannello accanto all’eloquio del “grande zio”, che avrebbe potuto tranquillamente sostituire l’intero parlamento italiano.

Nella piazza di Guardia o di Caposele si riunivano infatti esponenti di ogni gruppo e fazione, interni al partito del potere o a quelli degli alleati, ma anche delle opposizioni di destra e di sinistra. Questa sessione locale della politica universale si ripeteva in ogni piazza irpina, e anche nei salotti torinesi o milanesi dei compaesani, come quelli dove da piccolo andavo a trovare la nonna, vedova di un grande dirigente della Rinascente fascista, epicentro della “Irpinia milanese” del dopoguerra. Tra i congiunti e gli irpini emigrati al nord non mancavano mai i democristiani di destra, di sinistra e di centro, lo zio fascista (mai quello comunista, una razza non contemplata dal sangue locale) e quello socialista, ma anche il repubblicano e il socialdemocratico, il liberale e il radicale, tutte ipostasi accomunate e attraversate dalla carriera politica di Gerardo Bianco in un modo o nell’altro, ma sempre con grande disincanto e ironia. “Vogliono un leader? Si accomodino, io non mi iscrivo al club degli statisti, sono un uomo da pasta e fagioli”, commentava quando capiva che nessuno lo implorava di rimanere segretario del partito. E la nonna Pia, a cui non avevano consentito gli studi, ma sapeva comprendere ogni cosa, concludeva con un sorriso accennato: “almeno non farai il sindacalista”, l’abominio più impensabile per la nobiltà dei salotti irpini.

La moglie Tina, una professoressa, comandava a Gerardo anche da ministro e notabile democristiano, come spesso accadeva nelle relazioni coniugali del Meridione e non solo. La famiglia dei paesi irpini è saldamente matriarcale, anche se in modalità molto asciutta e “laica”, senza orpelli clericali e devozionali. Non a caso gli americani in guerra con i nazisti, che occuparono queste terre per un paio d’anni, trovarono le porte aperte al cristianesimo protestante dell’Esercito della Salvezza, che infondeva uno spirito di sana indipendenza nella stessa professione di fede, lasciando ai monsignori di paese il possesso delle canoniche semivuote, in perfetto stile democristiano. Del resto il partito era erede della stoica resistenza di De Gasperi alle pretese del papa Pio XII, che intendeva porre al vertice del partito la Madonna pellegrina dei cortei anticomunisti; le correnti democristiane di centro e sinistra seppero riformulare in mille diverse varianti la sinfonia del potere tra trono e altare, e Gerardo Bianco ne fu interprete sublime.

Delle tante vicende di cui il politico avellinese fu protagonista, quella che rimase epica fu la diatriba con Rocco Buttiglione, che al di là degli orientamenti di destra e sinistra, berlusconiani o popolari, fu anche uno scontro tra due modi di esprimere la natura e la filosofia del Meridione. Bianco chiamava evangelicamente il rivale “un fico infruttuoso”, per indicare l’antico pregiudizio degli amalfitani nei confronti degli appuli e salentini, considerati di vedute ristrette a causa degli angusti mari, a confronto dell’infinito orizzonte mediterraneo. E in quel caso il filosofo era il pugliese, mentre l’avellinese era un cultore delle lettere classiche. Non meno acuta, del resto, era l’opposizione al cugino Ciriaco di Nusco, che “non parlava chiaro” come voleva Gerardo, uomo cristallino e integerrimo, che non lasciava al non detto il senso delle proprie azioni.

Bianco rimproverava a De Mita di inseguire “la gioia del potere, sia pure circoscritto al castello dell’antico signore”. Egli non fu mai un uomo di potere, fu un uomo di pensiero e di contestazione del potere fasullo. Era un uomo di relazioni, famigliari e amicali, ma senza interessi reconditi. Si palesava volentieri a casa dei parenti e conoscenti anche senza preavviso, condividendo la tavola e il salotto, discutendo dei destini dell’Italia e del mondo davanti a un bicchiere di Taurasi, senza preoccuparsi se gli interlocutori erano all’altezza o meno, di una parte o dell’altra delle barricate. Affabile e attento, salutava piccoli e grandi, uomini e donne, giovani, bambini e bambine senza supponenza o alterigia.

Entrava in chiesa anche quando tutti i maschi di paese rimanevano a discutere in piazza, soprattutto quando c’era da pregare per un defunto, a cui sapeva dedicare pensieri profondi e commemorazioni pubbliche, sicuramente molto più sobrie e adeguate di quanto possiamo fare noi che lo ricordiamo ora dopo la sua lunga e fruttuosa esistenza, di cui speriamo poter conservare i tanti doni che ha lasciato nelle nostre anime.

Stefano Caprio

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Questo sito utilizza i cookie per migliorare servizi ed esperienza dei lettori. Se decidi di continuare la navigazione clicca sul pulsante ACCETTO maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o clicchi su "Accetta" permetti al loro utilizzo. Nuovomeridionalismostudi.it utilizza solo “cookie tecnici”. Nello specifico Nuovomeridionalismostudi.it utilizza specifici plugin per monitorare l’andamento delle visite sul proprio portale. Su Nuovomeridionalismostudi.it sono presenti funzioni social collegate ai principali social network quali Facebook, Twitter, Google +, Google Maps, YouTube, Vimeo.

Chiudi